Fire: transizione energetica inevitabile

Fire: transizione energetica inevitabile
Fire: transizione energetica inevitabile
La posizione di Dario Di Santo, direttore della Fire – la federazione italiana per l’uso razionale dell’energia - è realistica: la strada per raggiungere gli obiettivi di una concreta transizione ecologica è complessa, inutile nascondercelo. Ma è un percorso da tentare fino in fondo. E occorre muovere tutti i leveraggi possibili, partendo da un cambiamento di mentalità produttiva

Fire: transizione energetica inevitabile.

La domanda che in molti si pongono, pensando agli obiettivi della transizione ecologica è: «Ce la faremo?». Una risposta aprioristicamente difficile da dare, considerando la complessità del quadro complessivo. Ma una cosa è certa, come sottolinea Dario Di Santo, direttore della Fire, la Federazione italiana per l’uso razionale dell’energia «L’azione dell’Italia non potrà che essere eccezionale, perché nessun Paese è in linea con le traiettorie ipotizzate nei vari scenari per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Si tratta di una sfida senza precedenti, che non pochi commentatori immaginano più impossibile. Preferisco comunque essere ottimista e confidare nella capacità di innovazione del genere umano. La decarbonizzazione è un processo necessario e urgente per evitare potenziali catastrofi di scala maggiore rispetto a quanto accaduto nel Nord America o in Germania occidentale nella prima metà di luglio».

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Quali sono, nel settore industriale, le tecnologie più efficaci per realizzare una reale transizione energetica?

Il risultato è conseguibile attraverso affinamenti successivi, ottenibili sostituendo le tecnologie comunemente impiegate per i servizi energetici: illuminazione, aria compressa, vapore e altri fluidi termici caldi e freddi eccetera con altre più performanti. Questo risulta evidente anche negli scenari elaborati dall’Agenzia internazionale dell’energia (IEA) nel suo ultimo rapporto “Net zero by 2050”, in cui si vede che la voce “efficienza energetica” va addirittura a ridursi nel periodo 2030-2050. La maggior parte del potenziale è legato all’efficienza energetica legata al cambiamento dei modelli di business e dei comportamenti, all’elettrificazione dei consumi e al cambio dei combustibili, oltre ovviamente al ricorso alle fonti rinnovabili. Dunque, le soluzioni più interessanti per l’industria sono quelle più complesse, legate al ripensamento del modo di creare (e utilizzare) prodotti e servizi, alla revisione dei propri processi manifatturieri e alle filiere di approvvigionamento e distribuzione nell’ottica dell’uso efficiente delle risorse e della circolarità.

Ci sono settori che più di altri hanno la necessità di riconversione?

La risposta più semplice a questa domanda sarebbe quella di prendere un prontuario nazionale delle emissioni per settore industriale e indicare quelli più emissivi come priorità. Ma ritengo che sia un approccio sbagliato. Intanto perché molte lavorazioni più impattanti sono state delocalizzate negli ultimi decenni e riferendosi ai terminali europei terremmo in considerazione solo la punta dell’iceberg. In secondo luogo, perché le politiche in essere, come l’emission trading, già tendono a promuovere il cambiamento nei settori in cui le emissioni sono più elevate, tanto più se passeranno le modifiche proposte di recente dalla Commissione europea nel pacchetto “Fit for 55”. Infine, perché la decarbonizzazione è un processo globale che richiede il contributo di tutti i settori. Piuttosto conviene ragionare sulle differenze fra settori. In generale ritengo che la spinta delle grandi imprese a rivedere le filiere e a ragionare sulle emissioni indirette, introducendo obiettivi e obblighi per i propri fornitori e accompagnandoli in questa transizione, sia fondamentale, così come lo sviluppo di servizi locali e territoriali.

A quanto ammonta l’intervento finanziario europeo?

La Commissione europea ha messo sul piatto oltre duemila miliardi di euro, di cui 1.211 miliardi come fondi di lungo periodo per l’intervallo di programmazione 2021-2027 e 807 miliardi di euro come fondi aggiuntivi per la ripresa (“Next Generation Eu”). I fondi per il 2021-2027 sono divisi in tre macroaree: politiche di coesione, politiche agricole comuni e nuove priorità (fra cui ricerca e innovazione, clima, trasformazione digitale, preparazione, recupero e resilienza). In questo nuovo pacchetto le nuove priorità ottengono per la prima volta un budget equivalente alle altre due aree. “Next generation Eu”, invece, si concentra nel supportare i Paesi per uscire dalla crisi, finanziando attraverso contributi e prestiti la decarbonizzazione, la digitalizzazione e la resilienza per affrontare le prossime sfide in modo più efficace. Si articola in una quota destinata alla ripresa (“Recovery and resiliance facility”, 724 miliardi di euro) e in contributi ad altri programmi (83 miliardi divisi su varie misure). È un programma rilevante con cui la Commissione europea confida di poter rilanciare l’economia del continente. A noi tocca sapere fare buon uso di questi fondi.

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Pnrr: cifre e obiettivi

«Il Pnrr – spiega Dario Di Santo, direttore della Fire – si fonda su un uso più razionale dell’energia. Energie rinnovabili senza dubbio, ma anche efficientamento energetico nei vari settori, con una maggiore destinazione delle risorse a edifici e mobilità. Si tratta di un piano importante, visto che il Pnrr da solo cuba per l’Italia oltre 191 miliardi di euro, che arrivano a 235 miliardi di euro considerando anche «React Eu» e il fondo complementare. Il Pniec prevedeva un investimento cumulato aggiuntivo rispetto alle politiche correnti di circa 185 miliardi di euro. Evidentemente il Pnrr risponde a esigenze più ampie e collegate al rilancio dell’economia nei Paesi membri, ma se ne intuisce la portata sull’azione di decarbonizzazione».

 

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